Teatro

Intercultural Dialogues: confronto tra realtà ed espressione culturale

Intercultural Dialogues: confronto tra realtà ed espressione culturale

Il mese scorso (18-22 marzo), presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Milano, ha avuto luogo la terza edizione di Intercultural Dialogues: un laboratorio di traduzione per il teatro che ha l’indubbio merito di permettere un confronto tra diverse espressioni artistiche ed intellettuali europee ed extraeuropee. Organizzato dall’Università degli Studi di Milano in associazione con l’Università di Cardiff e sostenuto da British Council, teatro Franco Parenti, Scuola Civica Paolo Grassi, Outis (Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea) e Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità), il progetto ha lo scopo di coinvolgere un selezionato gruppo di studenti universitari nel processo di traduzione di un’opera di teatro anglofono contemporaneo alla presenza dell’autore stesso, disponibile per ogni spunto e chiarimento. Il testo così tradotto viene utilizzato per un allestimento poi rappresentato sulla scena teatrale milanese, di modo che il confronto formativo si apra al grande pubblico e rappresenti uno spunto di discussione all’interno dell’intera comunità.

Il progetto pone dei punti di riflessione a partire dalle conseguenze socio-culturali dovute alle numerose ondate migratorie che hanno interessato a fasi alterne l’Europa intera; i testi da tradurre sono, quindi, selezionati in quanto rappresentazione dello spaesamento di coloro che si sono ritrovati a convivere all’improvviso con culture altamente differenti dalla propria, pregiudicando una forte crisi di identità individuale. L’intento è reso attraverso i titoli scelti nel corso delle varie edizioni di Intercultural Dialogues: nel primo allestimento del progetto Rani Moorthy (fondatrice malese di Rasa Productions di Birmingham e autrice dei testi teatrali Curry Tales e Too Close to Home) ha partecipato al workshop “Who do you think you are?” per la traduzione del suo Handful of Henna, mentre durante il secondo svolgimento Kwame Kwei-Armah (drammaturgo di origini afro-caraibiche, tra le cui opere spicca Fix up) ha scelto “I want to be an ispiration” per la trasposizione di Let there be love; questi autori si propongono, dunque, l’audace obiettivo di rappresentare il proprio punto di vista attraverso la scrittura, in modo da poter essere un’affidabile fonte d’ispirazione per il pubblico, così come per chi abbia vissuto la loro medesima esperienza. Quest’anno è stata la volta dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi, che per la traduzione di Borderline ha scelto l’emblematico titolo di “We’re all mixed-race now”, evidente sintomo di una svolta nell’integrazione tra le varie nazionalità civili.

Hanif Kureishi, pluripremiato scrittore e drammaturgo, nasce a Londra nel 1954 da padre pakistano e madre inglese; nel corso della sua vita ha, quindi, modo di sperimentare, tramite le proprie esperienze famigliari, i drammi e le difficoltà dell’integrazione dei migranti postcoloniali nel Regno Unito. Ispirandosi ad argomenti autobiografici, i suoi testi affrontano la questione degli scontri etnici e generazionali nell’Inghilterra degli anni ’70 e ‘80. Nel mondo letterario di Hanif Kureishi, però, l’autobiografia è soltanto un elemento d’ispirazione, uno sfondo raramente e debolmente messo a fuoco: è l’autore stesso a rivelare nel suo saggio “Di nuovo sulla linea di confine” (in H. Kureishi, La Parola e la Bomba, Bompiani, 2006) come il testo sia stato concepito a partire da una serie di interviste ai membri della comunità pakistana del quartiere londinese di Southall, secondo le indicazioni del regista Max Stafford Clark. Questo non solo arricchì il testo teatrale d’un’immediatezza di contenuti da condividere con il pubblico contemporaneo, ma aggiunse anche una molteplicità di esperienze che permise allo scrittore di rappresentare diversi punti di vista sulle vicende attinenti ai soprusi razziali durante l’ascesa del neofascismo inglese, l’iniziale permissività ed indifferenza del Parlamento, l’istinto di rivolta dei giovani contro una nazione che stentava ad accoglierli e contro quei genitori che preferivano subire in silenzio, ma anche la creatività di molti altri membri della seconda generazione che scelsero di fuggire da periferie così opprimenti per cercare di cambiare la società dall’interno e in modo non violento.

In Borderline (1981), l’opera al centro del terzo workshop di Intercultural Dialogues, questa pluralità di voci e contraddizioni emerge attraverso una vasta gamma di personaggi e di aspettative riguardo la vita nella Madrepatria. Delineare le caratteristiche sociali ed individuali di ogni personaggio è stato allora un elemento fondamentale e necessario ai fini della resa traduttologia, perchè proprio tali differenze ideologiche e caratteriali sono state utilizzate da Hanif Kureishi come mezzo di rappresentazione del forte clima di contrasti ed opposizioni dell’epoca.

Analizzando la prima scena dell’opera, ad esempio, tutti i partecipanti al laboratorio sono convenuti nel ritenere evidente lo scontro generazionale tra le ambizioni patriarcali di Amjad sulla figlia e la scissione culturale vissuta dai giovani protagonisti: emblematica è, allora, la contrapposizione tra gli abiti tradizionali indossati da Àmina ed il suo linguaggio ed atteggiamento volgare e provocatorio; i membri della II generazione di immigrati nell’opera, inoltre, reagiscono ciascuno in modo differente agli stimoli esterni: così mentre la fanciulla, appartenente ad un ceto sociale basso, aderirà alla fine all’Asian Young Front e parteciperà all’organizzazione di una risposta violenta alla manifestazione neofascista, Haroon, provenendo da una classe più abbiente, preferirà allontanarsi da quel mondo brutale per frequentare una lontana università con l’obiettivo (più o meno imposto dalla decisione paterna) di diventare avvocato.

Nell’ambito di Intercultural Dialogues la molteplicità dei punti di vista, con le rispettive variazioni di lessico, accenti, gerghi e culture, è stata al centro dell’analisi; la trasposizione di ogni battuta dall’inglese all’italiano ha aperto accesi dibatti riguardo alle scelte lessicali più consone, a partire dal dubbio sull’uso delle parolacce come intercalari giovanili, sino alle incerte variazioni contenutistiche per rendere alcuni concetti della cultura inglese maggiormente fruibili per il pubblico teatrale milanese. I consigli di alcuni traduttori affermati e la messa in atto dei dialoghi da parte di alcuni attori della Scuola Civica Paolo Grassi sono stati, infine, fondamentali per realizzare un abbozzo di traduzione che rendesse effettivamente giustizia all’originale. In questo modo, inoltre, si è reso evidente quanto tradurre per il teatro richieda un’attenzione particolare: nella messa in atto dei dialoghi, infatti, è fondamentale mantenere una certa attenzione culturale e sonora rispetto al testo originale, un’attenta focalizzazione su chi parla (delineandone le caratteristiche di età, genere e classe sociale che si rispecchino nell’uso della lingua) e un’immediatezza dei contenuti affinché siano prontamente recepiti dal pubblico (che non può riascoltare o rileggere l’opera, com’è ad esempio possibile nei romanzi).

La pratica della traduzione è stata senza dubbio il centro focale del laboratorio, ma durante i vari incontri si ha avuto modo anche di discutere dei problemi dell’immigrazione e della perdita dell’identità individuale attraverso giochi di ruolo di stampo teatrale che hanno portato i partecipanti a confrontare le esperienze migratorie in Italia ed UK. Rispetto agli immigrati giunti recentemente in Italia, difatti, i migranti postcoloniali approdati in Gran Bretagna risultarono immensamente avvantaggiati nello stabilirsi presso la Madrepatria: di quel luogo conoscevano, appunto, già lingua, usi e costumi (pur con qualche pregiudizio ed idealizzazione rivelatisi poi errati); coloro che sono giunti nella penisola italiana negli ultimi anni, invece, oltre alle difficoltà di integrazione in un paese tuttora non preparato al loro arrivo, hanno dovuto aggiungere anche l’ostacolo di imparare un linguaggio ed una cultura che erano loro completamente estranei.

La lingua si è allora delineata come uno strumento fondamentale per la definizione del sé attraverso cui si possa esprimere appieno la propria identità; è questo il motivo appunto per cui se scopriamo un immigrato condividere la nostra lingua, allora lo percepiamo come meno straniero e pericoloso.

Intercultural Dialogues si è rivelato in questo modo un progetto molto interessante e coinvolgente per gli studenti, che hanno avuto la possibilità di interagire e di confrontarsi su un tema fondamentale della società contemporanea italiana ed europea. A conclusione del workshop ai partecipanti è stato chiesto di seguire le orme di Hanif Kureishi e di intervistare un immigrato  interrogandolo sulla propria esperienza di viaggio e di inserimento o non inserimento nella nazione italiana; confrontando poi le varie informazioni così ottenute sarà possibile delineare finalmente il fenomeno dell’immigrazione e dell’integrazione: non solo in quanto concezioni astratte e letterarie, ma piuttosto come elementi tangibili e vicini alla nostra realtà quotidiana, perché lo “straniero” non venga più percepito come una figura estranea e pericolosa, ma come un’opportunità di scoperta e confronto con una cultura diversa.